La definizione di soggetto debole è particolarmente variegata. Si parte dalle figure più classiche del soggetto meritevole di protezione per la sola circostanza dell’essere minore di età, dell’interdetto e dell’inabilitato o dell’amministrato (il c.d. beneficiario), passando attraverso la concezione di soggetto debole inteso come parte contrattualmente debole nei contratti asimmetrici, nonché nei rapporti di lavoro subordinato con particolare riferimento al lavoratore, in qualità di soggetto economicamente meno forte.
Si giunge, poi, al soggetto debole meritevole di tutela in relazione alle scelte di fine vita, oggi di grande attualità o, più in generale, alla figura del soggetto debole nel rapporto con il medico curante. La definizione di soggetto debole è poi di largo uso anche in ulteriori marginali ipotesi, esemplificativamente riconducibili alla tutela della madre in caso di gravidanza complicata dalla diagnosi di patologie del feto.
Il problema della tutela giuridica dell’uomo come soggetto del mondo giuridico e nello specifico dei soggetti più deboli, da sempre, e oggetto dell’attenzione del nostro legislatore che riconosce nell’individuo il centro dei diritti e dei doveri previsti e riconosciuti oltre che dal nostro ordinamento giuridico anche dalla Carta Costituzionale (art. 2 Cost.).
Va evidenziato, in proposito, che l’uomo come soggetto di diritto assume un diverso rilievo giuridico a seconda delle varie fasi del suo sviluppo.
Infatti, il dettato normativo statuisce che la posizione giuridica dei singoli individui passa attraverso due diversi tipi di capacità: quella giuridica e quella d’agire.
La capacità giuridica viene acquisita dal soggetto al momento della nascita, mentre la capacità d’agire si concretizza e viene in essere col compimento della maggiore età in quanto vige una “generale presunzione” secondo la quale con il compimento della maggiore età il soggetto raggiunge quella maturità che lo rende idoneo a curare consapevolmente i propri interessi.
La capacità giuridica va dunque distinta dalla capacità d’agire; queste spesso non coincidono.
La capacità giuridica e l’attitudine “ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive (diritti, obblighi o interessi legittimi)” e cessa solo a seguito dell’evento naturale della morte del soggetto. Pertanto, per nessun motivo un individuo può essere privato della capacità giuridica, in tal senso l’art. 22 della Costituzione dispone che “nessuno può essere privato, per motivi politici, della propria capacità giuridica“.
La capacità d’agire, invece, si snoda nella titolarità di tali situazioni giuridiche e nel potere del loro effettivo esercizio ovvero può consistere nella idoneità del soggetto a creare, modificare o estinguere, mediante manifestazioni di volontà, uno o più rapporti giuridici.
Tuttavia, nonostante quanto disposto dal dettato di legge: non sempre questo e vero.
Se infatti la capacità giuridica cessa con la vita dell’individuo, per quanto attiene, invece, la capacità d’agire non sempre un soggetto può possederla e disporne fino al momento della propria morte; può accadere ad esempio che un soggetto seppur maggiorenne, sia privo, in tutto o in parte, di tale capacità, perché sono subentrate della malattie che hanno impedito un completo sviluppo della sua maturità psichica o fisica, o ancora perché lo stesso abbia subito particolari condanne penali.
Per anni, il nostro legislatore e venuto in soccorso a tali situazioni di svantaggio (cercando di adoperare strumenti di tutela che garantissero il singolo e la collettività) attraverso due diversi istituti di protezione: l’interdizione l’inabilitazione.
Queste misure di protezione seppur finalisticamente indirizzate a tutelare i soggetti incapaci consentendo loro in via diretta o mediata di porre in essere l’attività giuridica, con gli anni e con il mutare della coscienza sociale si sono dimostrate incomplete e penalizzanti.
Paradossalmente l’interdizione e l’inabilitazione: tutelando non tutelavano.
Nella prassi anche se gli interdetti e gli inabilitati, il più delle volte, sono affiancati da tutori o curatori, nominati con lo scopo di tutelare e proteggere la sfera patrimoniale di codesti soggetti, non c’è chi non veda come consequenzialmente resti privo di tutela l’ambito non prettamente patrimoniale dei soggetti incapaci sottoposti ad interdizione o inabilitazione.
Veniva così a formarsi un vuoto normativo di rilevante portata per le conseguenze giuridiche e pratiche che ne scaturivano.
Tale vuoto normativo e stato acutamente colto dal nostro legislatore che nel tentativo di potenziare la tutela dei soggetti incapaci (mediante la legge 9 gennaio 2004, n.6) l’ha estesa anche alla sfera “non prettamente patrimoniale” creando così un terzo istituto di protezione: l’Amministratore di sostegno.
Oggi, non vi è chi non veda come in seguito alla legge 9 gennaio 2004, n. 6 abbiamo un ulteriore strumento di tutela che è sicuramente da preferirsi all’interdizione e all’inabilitazione e che ha riformato profondamente il nostro Codice Civile.
Il nuovo istituto introdotto dalla legge n.6/2004 e stato accolto con grande entusiasmo poiché gli è riconosciuta, senza dubbio, una grande rilevanza sociale; il Legislatore con la legge de quo ha saldato un debito di circa vent’anni partorito dalla legge Basaglia.
Lo Studio, in questo ampio scenario, ha maturato grande esperienze nel settore della tutela delle persone “deboli” anche grazie alla pluriennale esperienza maturata presso la sezione tutele dei Tribunale di Milano, Pavia, Alessandria, Varese, Mantova e Cremona, in materia di protezione giuridica dei soggetti deboli, ricomprendo indistintamente il ruolo di Tutore, Curatore e sempre di più di Amministratore di sostegno.
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La definizione di soggetto debole è particolarmente variegata. Si parte dalle figure più classiche del soggetto